Crisi, chiusi centinaia di
negozi, la strage dal centro alle periferie.
Abbigliamento, cartolerie e
tessuti i settori falcidiati dalla recessione. I motivi: costi di gestione
eccessivi e drastico calo dei consumi. In via Padova anche la comunità cinese
registra i primi segnali di debolezza.
Chiusi per sempre: in tre anni in città sono
spariti nel nulla 22 fruttivendoli, 48 panetterie e 17 macellerie. Tra centro e
strade più periferiche si sono persi 112 negozi di abbigliamento e 16 botteghe
specializzate in articoli sportivi; i bambini hanno 14 vetrine di giocattoli in
meno davanti a cui sognare e 86 cartolai in meno per il rifornimento di
quaderni; e per acquistare una grattugia bisogna girare un bel po’, visto che
84 empori di casalinghi hanno cessato l’attività. Affitti troppo cari, discount
competitivi e calo drastico dei consumi spengono le vetrine, e come durante
un’epidemia, il contagio fa in fretta a dilagare.
Così se da tempo via Mazzini, due passi dal Duomo, è in preda alla moria di negozi, con conseguente degrado e incuria, la sindrome da chiusura diffusa si sta spingendo in tutta via Albricci, fino a raggiungere via Torino verso il Carrobbio. «Non era mai successo prima e sicuramente — ammette Giampaolo Mignone, titolare di MM e vicepresidente di Anvit, Associazione negozianti di via Torino — gran colpa è da imputare a canoni esosi: 100mila euro annui per100 metri quadri sono
inaccessibili soprattutto per chi ha una piccola attività. Basta un anno di
magra e con affitti così si è costretti a chiudere». La sequela di cartelli
affittasi appesi alle vetrine ha un effetto deterrente su chi fa shopping: «Ora
in via Torino la gente cammina fin verso la Fnac, poi gira e torna indietro al
Duomo perché oltre c’è il vuoto».
Così se da tempo via Mazzini, due passi dal Duomo, è in preda alla moria di negozi, con conseguente degrado e incuria, la sindrome da chiusura diffusa si sta spingendo in tutta via Albricci, fino a raggiungere via Torino verso il Carrobbio. «Non era mai successo prima e sicuramente — ammette Giampaolo Mignone, titolare di MM e vicepresidente di Anvit, Associazione negozianti di via Torino — gran colpa è da imputare a canoni esosi: 100mila euro annui per
A metà anche corso di Porta Romana: «Fino all’incrocio con
via Lamarmora regge — spiega Stefano Fornaro, consigliere dell’associazione di
via — poi verso la periferia iniziano gli acciacchi. Hanno chiuso Gusella, la
boutique Liolà e un’agenzia viaggi. La libreria è diventata una banca,
l’ennesima». L’aura triste della vetrina sfitta agisce come un diserbante: dove
si instaura non cresce più nulla. Così Alessandro Casbelli, commerciante orafo
in via Mazzini, ha raccolto 250 firme di residenti e negozianti e le ha appena
inviate al sindaco insieme a vecchie fotografie della via scattate un secolo
fa: «Era la zona delle botteghe, degli artigiani, possibile che sia ridotta
così e che l’amministrazione la lasci trasformare in una latrina a cielo
aperto?».
Ci sono strade, come via Washington, che un tempo contavano sulla clientela della Milano “bene”, mentre ora sono finite nel dimenticatoio; Peter’s Shoes, storico negozio di calzature, dove a fine anni 70 si affollava chi cercava i mitici stivaletti Barrows, ha cessato l’attività in primavera e al suo posto ha appena aperto un ambulatorio veterinario. «Hanno chiuso due tintorie, due agenzie viaggi e una merceria in pochi mesi — spiega Eugenio Marchitelli, presidente dell’associazione di via Washington — . Del resto, anche pagando solo 1.500 euro al mese per un buco di negozio, quanti bottoni bisogna vendere per starci dentro?» Tincati, dal ‘65 con le sue boutique in viale Piave, ha rinunciato al dettaglio per dedicarsi alla sartoria, ma i locali che danno su piazza Oberdan sono ancora vuoti. Ha chiuso Piave 38, storico marchio d’abbigliamento e ha abbandonato il campo per mancanza di lavoro anche La casa sul viale, tappezziere.
Non va meglio fuori dal centro: in via Padova hanno chiuso 22 negozi in 4 anni, ci sono botteghe trasformate in appartamenti e perfino l’abilità commerciale della comunità cinese inizia a dare segni di debolezza: «All’altezza di via Ponte Nuovo — spiega Alessandro Valsasina, dell’associazione di via — una cartoleria cinese ha aperto tre anni fa per far concorrenza al cartolaio italiano attiguo. L’italiano ha chiuso l’anno dopo, e il cinese qualche mese fa». Via un autoaccessori, via la profumeria, via il negozio di telefonia e via anche l’ultima macelleria: a settembre in via Ripamonti 6 botteghe hanno chiuso: «Ora le proprietà tentano di abbassare i canoni, finalmente — spiega Franco Calabrese, pellicciaio e coordinatore dei negozi di via — ma anche 1.000 euro per 60 mq paiono troppi». E mostra l’autosalone trasformato in sala giochi.
Bingo e sale da gioco, del resto, sono le uniche attività in ascesa: da 92 nel 2009 sono ora 111. Una dozzina i negozi scomparsi nel nulla in via Lorenteggio e altri «si trascineranno fino a fine 2012, per poi abbandonare a inizio anno nuovo», dice con tristezza Gaetano Bianchi, che rappresenta i commercianti di zona. Pur pessimista, Bianchi ha un’idea fissa: «Trasformiamo queste vie depresse in vie chiuse al traffico; le isole pedonali fanno bella la città e dove la città è bella lo shopping cresce».
Ci sono strade, come via Washington, che un tempo contavano sulla clientela della Milano “bene”, mentre ora sono finite nel dimenticatoio; Peter’s Shoes, storico negozio di calzature, dove a fine anni 70 si affollava chi cercava i mitici stivaletti Barrows, ha cessato l’attività in primavera e al suo posto ha appena aperto un ambulatorio veterinario. «Hanno chiuso due tintorie, due agenzie viaggi e una merceria in pochi mesi — spiega Eugenio Marchitelli, presidente dell’associazione di via Washington — . Del resto, anche pagando solo 1.500 euro al mese per un buco di negozio, quanti bottoni bisogna vendere per starci dentro?» Tincati, dal ‘65 con le sue boutique in viale Piave, ha rinunciato al dettaglio per dedicarsi alla sartoria, ma i locali che danno su piazza Oberdan sono ancora vuoti. Ha chiuso Piave 38, storico marchio d’abbigliamento e ha abbandonato il campo per mancanza di lavoro anche La casa sul viale, tappezziere.
Non va meglio fuori dal centro: in via Padova hanno chiuso 22 negozi in 4 anni, ci sono botteghe trasformate in appartamenti e perfino l’abilità commerciale della comunità cinese inizia a dare segni di debolezza: «All’altezza di via Ponte Nuovo — spiega Alessandro Valsasina, dell’associazione di via — una cartoleria cinese ha aperto tre anni fa per far concorrenza al cartolaio italiano attiguo. L’italiano ha chiuso l’anno dopo, e il cinese qualche mese fa». Via un autoaccessori, via la profumeria, via il negozio di telefonia e via anche l’ultima macelleria: a settembre in via Ripamonti 6 botteghe hanno chiuso: «Ora le proprietà tentano di abbassare i canoni, finalmente — spiega Franco Calabrese, pellicciaio e coordinatore dei negozi di via — ma anche 1.000 euro per 60 mq paiono troppi». E mostra l’autosalone trasformato in sala giochi.
Bingo e sale da gioco, del resto, sono le uniche attività in ascesa: da 92 nel 2009 sono ora 111. Una dozzina i negozi scomparsi nel nulla in via Lorenteggio e altri «si trascineranno fino a fine 2012, per poi abbandonare a inizio anno nuovo», dice con tristezza Gaetano Bianchi, che rappresenta i commercianti di zona. Pur pessimista, Bianchi ha un’idea fissa: «Trasformiamo queste vie depresse in vie chiuse al traffico; le isole pedonali fanno bella la città e dove la città è bella lo shopping cresce».
fonte web
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